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Scappo o Resto? - un romanzo di Marco Gallo

Scappo o Resto?

Mondragone è un territorio, come direbbe qualcuno, “benedetto da Dio, ma maledetto dagli uomini”. La cittadina vanta un passato storico-culturale immenso; non è un caso che i romani trascorressero le giornate presso l’antica colonia di Sinuessa, all’epoca situata in parte proprio in queste località. Come spesso accade, però, la sua storia negli anni è stata accantonata per dare spazio a un malsano immobilismo; una condizione in cui ancora oggi la città versa e che ha condotto giovani e meno giovani a porsi costantemente una domanda: “Scappo o resto?”. Niccolò, Salvatore e Luigi crescono insieme, in quella stessa terra che li costringe a compiere scelte diverse, scelte sofferte o incaute, ma ciascuna foriera di inevitabili conseguenze sulla vita di ciascuno di essi.

Quel posto vuoto accanto a me - un romanzo di Marco Gallo

Quel posto vuoto accanto a me

Spesso, passeggiando per le strade, capita di notare anziani che con le loro gambe stanche occupano panchine ormai sbiadite dal tempo, lasciandosi cullare da pensieri ed emozioni. Mentre i loro occhi scrutano la città in movimento la mente ripercorre attraverso i ricordi il viaggio incredibile della loro esistenza. Gaetano Mennella, un simpatico ottantenne è il protagonista di questo romanzo. La sua vita ricca di colpi di scena, di emozioni, e caratterizzata da un amore intenso e indissolubile per la sua amata, sarà il fil rouge di una storia che merita di essere ascoltata. Proprio lì su quella stessa panchina, dove passato e presente s’intrecciano per dare forma al ricordo di un’intera esistenza.

Da Napoli a Milano, dai primi del Novecento agli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta fino ai giorni nostri. È questa l’ambientazione che farà da sfondo alle storie dei vari personaggi che ruotano attorno al protagonista.

Prologo

Dal caffè sospeso…

​

Sono trascorsi due anni.

Sul divano di casa ripenso alle casualità della vita, all’unicità delle diverse esperienze dei pazienti di cui mi occupo e che ogni giorno animano nel bene o nel male le mie giornate.

A volte sembra di vivere in deboli scatole di cartone: basta una folata di vento o una pioggia insistente per far crollare tutto ciò che ti circonda. Pareti che pensi possano sostenerti per tutta la vita, ma che in realtà sono più fragili della tua stessa esistenza.

Negli ultimi anni è cresciuta in me la convinzione che tutti in fondo abbiano una storia da raccontare. Mia figlia, ad esempio, già dai primi passi mi ha mostrato che è possibile vedere la luce nel buio profondo di una nottata senza luna. Un simpatico ottantenne, invece, mi ha insegnato che la vita va vissuta anche quando non c’è più niente da vivere, che non bisogna attendere inermi l’ultima fermata del tram, senza prima aver visto con i propri occhi cosa c’è a ogni tappa.

Oggi vi parlerò proprio di lui e della sua storia. Non è stato semplice scavare nel suo passato. A un certo punto la difficoltà di riempire le pagine bianche, inumidite dalle mie stesse lacrime, ha preso il sopravvento. Poi un giorno, casualmente, sono entrato in una bottega di numismatica e mi hanno presentato l’ultima persona al mondo che avrebbe potuto spogliarlo in un istante dei suoi drammatici segreti. Nel retro del negozio, un uomo attempato si crogiolava su una sedia a dondolo e mi sorrideva. Non mi ha respinto, non è stato scortese, anzi. Senza che dicessi nulla mi ha preso per mano e mi ha mostrato le pagine mancanti.

Le stesse che io ora racconterò a voi.

 

Ω

 

All’interno di un bar, sulla strada principale di un paesino in provincia di Milano, un ottantenne era solito fermarsi in mattinata per sorseggiare un caffè espresso. Alle spalle del bancone era stata appesa una stampa del golfo di Napoli: sullo sfondo il Vesuvio, il lungomare Mergellina, il porto e il Maschio angioino. Non a caso il titolare era di origini partenopee e amava ricreare atmosfere del Sud accompagnate da un ottimo caffè napoletano.

«Gaetano, il solito?»

Il locale era affollato, la giovane stagista era intenta a riportare frettolosamente le ordinazioni degli altri clienti e attendeva spazientita un suo cenno d’assenso.

«Certamente» rispose il vecchio «ma aiutami a tener d’occhio la mia panchina».

La ragazza sorrise senza capire, poi con sguardo incerto sbirciò fuori dal locale.

Nel frattempo l’anziano signore tolse educatamente il suo vecchio borsalino grigio e lo poggiò sul bancone, prese la tazzina e cominciò a sorseggiare con gusto. Al momento di pagare tirò fuori dalla tasca destra del cappotto una manciata di monete e col pollice iniziò a contarle girandole all’interno del palmo della mano.

«Scusa Gaetano, purtroppo abbiamo aumentato i prezzi» disse la stagista.

«Signorì, ma questo caffè aumenta ogni giorno che passa. Ai miei tempi con mille lire ne bevevi almeno due. Comunque, mi dispiace assai ma non ci arrivo. Fai un’eccezione per questa volta, sono un cliente affezionato».

A quella richiesta la ragazza rispose con sgarbo e la conversazione prese una piega diversa.

«Abbi pazienza Nenné, tu sei appena arrivata. Chiedi al tuo titolare, lui mi conosce, è napoletano comm a’ me».

«Gaetano, per favore, mi è stato detto di non fare credito a nessuno».

Improvvisamente l’atteggiamento del vecchio cambiò. Con un gesto di stizza afferrò il cappello e cominciò a inveire contro la barista.

«Mannaggia Sacripante!» Esclamò. «Vicino a’ na tazzulell e’ café non mettete neanche nu’ bicchiariell d’acqua, e ora addirittura non puoi aspettare un giorno per due spicci? Siete usciti pazzi! Non metterò più piede qui dentro».

«Che sta succedendo?»

Dal retro del bancone si fece avanti un ragazzo sulla trentina. Un giovane dagli occhi cerulei e dai capelli neri arruffati ma presentabili. Sembrava provato dalla stanchezza, eppure aveva uno sguardo singolare, quasi magnetico. Con una mano stringeva una piccola shopper bag verde salvia da cui appena s’intravedeva un camice bianco e parte dell’archetto biauricolare di un fonendoscopio; sul taschino, cucita a mano, due iniziali scritte in corsivo “M.F.”

Quando notò che l’ottantenne tremava per l’agitazione e farfugliava parole incomprensibili, si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla.

«Quanto le deve il signore?» Chiese rivolgendosi alla ragazza.

La stagista era mortificata, continuava a precisare che erano solo le direttive che aveva ricevuto. Avrebbe potuto chiudere un occhio, ma la mole di lavoro e il timore di un rimprovero del titolare la resero incapace di gestire la situazione.

«Facciamo in questo modo» esordì il giovane con voce risoluta. «Aggiungo io la parte che manca e offro il caffè al signore anche per domani. Chiamiamolo “caffè sospeso”, come quelli che si lasciano a Napoli a beneficio di uno sconosciuto. Nel nostro caso, però, sappiamo già a chi servirlo».

Quel gesto placò gli animi.

Poco dopo i due uscirono assieme dal locale. Il vecchio continuava a borbottare, mentre il ragazzo gli afferrò con garbo il gomito e si propose di accompagnarlo fino a una vicina panchina. Stava per sedersi accanto a lui quando venne fermato.

«Scusa giovanotto, questo posto è occupato».

Il ragazzo si guardava intorno incuriosito. Il viale alberato in cui si trovavano era quasi deserto e quell’affermazione gli sembrava alquanto insolita. In effetti dava l’idea di essere un vecchio bisognoso d’aiuto, dalle rotelle fuori posto, quindi senza replicare lo aiutò ad accomodarsi e restò in piedi qualche minuto a chiacchierare con lui.

«Non è per te, ci mancherebbe, ma non faccio mai sedere nessuno qui vicino, neanche l’infermiera Annie che per me è come una figlia».

Era una strana giustificazione, questo è certo, ma aprì le porte a una serie di domande che avrebbero sicuramente sollevato il giovane dall’imbarazzo.

«Come ti chiami?»

«Mario. Sono un radiologo dell’ospedale qui di fronte».

«Ah, che piacere che mi stai dando. Vorrà dire che quando vengo a fare i prelievi posso intrattenermi a parlare con un amico. Almeno ho la scusa per restare più tempo possibile fuori da quel manicomio». Si voltò e puntò il dito verso il centro per anziani alle sue spalle.

«Ebbene sì, questa è la mia condanna: troppo decrepito per restare da solo».

Mario sorrideva e nel frattempo buttava l’occhio all’orologio. Sembrava avesse fretta di concludere la conversazione per rientrare in ospedale, tuttavia una strana sensazione gli diceva di restare e dedicare ancora un po’ del suo tempo a quello sconosciuto signore. Era un vecchio burbero, ma era simpatico, sicuramente molto più sveglio di qualche suo coetaneo.

«Sei inquieto giovanotto. Qualche bella guagliuncella che ti aspetta?»

«In realtà ho smontato dal turno di notte e dopo poche ore mi hanno richiamato per sostituire un collega. Siamo a corto di medici e purtroppo non ho ancora trovato il tempo per dedicarmi a una relazione come vorrei».

«Qualcuno mi diceva sempre che la virtù dell’essere umano si completa quando lavoro e amore corrono di pari passo. Il lavoro è passione, è gratificazione, ma l’amore figlio mio, l’amore è sacrificio, è nata cos. Rinunciare ad ambizioni personali, almeno in parte, per dedicare tempo alla cura del fiore più bello del tuo giardino. Sono parole che ripeto da sempre a quel fetente di mio figlio, ma senza risultato».

«Detto così sembrerebbe facile. Lei, invece, ha qualcuno che l’aspetta?»

Mario fu evasivo. Provò a cambiare discorso perché l’ultima storia era finita proprio a causa delle sue continue assenze.

«Giovanotto, non ti sembra di correre un po’ troppo?»

L’attempato interlocutore si dimostrò particolarmente suscettibile. A ogni modo, il ragazzo comprese che per intavolare una conversazione duratura avrebbe dovuto utilizzare i modi giusti per evitare di essere mandato a quel paese.

«Come si sta al centro anziani?» Chiese timidamente.

«Da carcerati! Se avessi saputo che quel disgraziato di mio figlio mi stava fregando, col cazzo avrei accettato di farmi rinchiudere in questo covo di rimbambiti. Comunque ho un piano. Appena possibile io e il mio compagno di stanza evadiamo e mandiamo tutti a fare in culo, parenti compresi».

I discorsi del vecchio, conditi da gesti particolarmente teatrali, innescarono in Mario una risata divertita.

«Domani torna, ti restituisco i soldi che mi hai prestato».

«Non è necessario, è stato un piacere. Piuttosto, ho dimenticato di chiederle il suo nome».

«Giovanotto, qua c’è bisogno che ci diamo del tu, altrimenti mi farai sentire con un piede fuori e uno dentro il camposanto. Hai di fronte a te Gaetano Mennella, che sono io!» Sospirò grattandosi il mento e aggiunse: «Che ero io. Guarda il tempo come mi ha ridotto».

«Allora ricominciamo da capo. Sono Mario Furnò, il ragazzo che ti ha tolto dalle grinfie della barista». Allungò la mano per stringere la sua e restò qualche secondo col braccio a mezz’aria.

Dopo aver udito quel cognome, infatti, l’espressione divertita di Gaetano era cambiata. Improvvisamente cominciò a scrutarlo con aria severa, fissandolo a palpebre strette e occhi socchiusi in segno di sfida.

«Ho forse detto qualcosa che ti ha turbato?»

«Hai per caso parenti a Milano?»

Mario annuì.

«Il nome di Vito Furnò ti dice niente?»

«Caspita, conoscevi il fratello di mio nonno?»

Quella piacevole conoscenza si stava trasformando in un severo interrogatorio. Le domande del vecchio avevano scosso il radiologo e inaspettatamente venne riaperta una scatola di storie irrisolte della sua famiglia, eventi che non avevano mai avuto risposte concrete. Forse la sua sensazione iniziale era fondata. Forse quell’incontro fortuito gli avrebbe permesso finalmente di colmare i suoi dubbi.

«Non quanto avrei dovuto» disse Gaetano. «Che fine ha fatto?»

«Ho ricordi vaghi di quando ero piccolo. Dopo anni ho scoperto che mio nonno e mio padre si recarono in carcere a ritirare la salma per le esequie. I medici dissero che era morto per un arresto cardiaco, ma nessuno c’ha mai creduto».

«Tuo nonno come la prese?»

«Non saprei. Quell’evento era nato e morto nello stesso giorno. Mio nonno era restìo a parlarne. È stato mio padre a raccontarmi che, dopo essere tornati dal funerale, mio nonno non sembrava affatto provato. Appariva sollevato, come se per anni avesse portato addosso un peso, un fardello che era riuscito finalmente a liberare. Mi è stato detto anche che mio nonno non condivise mai le scelte di vita del fratello e…» venne interrotto.

«Tu mi piaci ragazzo! Il mondo è proprio uno stretto crocevia». L’umore altalenante di Gaetano lasciò per un attimo Mario a bocca aperta. Sembrava quasi che quella sincera testimonianza fosse stata la chiave giusta per ritornare a un dialogo più disteso.

«Quindi lo conoscevi?» Ribadì.

«Negli anni Sessanta il suo nome risuonava in ogni angolo di Milano. Era un uomo d’onore, vecchio stampo, ed è stato uno tra i più grandi partigiani d’Italia. Poi qualcosa è andato storto. I suoi valori si sono trasformati nel rifiuto verso un mutamento rapidissimo e radicale che la società milanese stava vivendo. La stessa città che tanto amava, e che per decenni l’aveva protetto, in un particolare momento della sua vita l’aveva abbandonato al suo destino assieme ai suoi compagni di merenda».

D’un tratto scese il silenzio.

Dagli occhi di Gaetano s’intravedeva un forte sentimento d’odio. Sembrava quasi che quello fosse un ricordo indigeribile del suo passato, una fiamma ardente che ancora bruciava dentro di lui. Per quelle ragioni, evidentemente, senza dare la possibilità al giovane di poter fare ulteriori domande, disse: «Ragazzo mio, stare seduti su questa panchina aiuta lo spirito a ripercorrere da spettatore i vecchi sentieri della vita, un viaggio nel tempo per rimbambiti come me».

Mario sorrise, ma divenne subito serio.

«Non hai risposto alla mia domanda. Come facevi a conoscerlo?»

Doveva sapere di più. Ebbro di gioia ed eccitato dalle inaspettate domande di Gaetano, si rese conto che non era lui a dover “aiutare” un povero ospite di un centro per anziani, bensì il contrario. La sorte gli stava dando la possibilità di scoprire nuovi intrighi: fatti ed eventi a lui ancora sconosciuti della sua famiglia. Ciò nonostante la sua curiosità venne immediatamente recisa con un taglio netto.

«Si nu bravo guaglione. Ancora troppo giovane per farsi cullare dalla malinconia dei ricordi come faccio io» esordì il vecchio. «Non è ancora tempo per te di sedere sulla panchina della vita. Tra poco l’infermiera Annie passerà a prendermi per riportami in mezzo ai pazzi».

«Ti va se vengo a trovarti qualche volta?» Chiese Mario con una punta di timore.

«Certamente. La regola ormai la conosci: l’importante è non occupare il posto vuoto accanto a me. Stammi bene!»

Mario si incamminò verso l’ospedale.

Superate le strisce pedonali giunse all’altro lato della carreggiata e prima di proseguire volse un ultimo sguardo a quell’anziano signore, inconsapevole del fatto che quell’incontro avrebbe cambiato per sempre la sua vita.

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